Progetto Fotografico
La solitudine di tutti
Franco Sborgi
(estratto dal volume Sussurri di Martina Massarente)
Quando ho visto per la prima volta le foto di Martina Massarente, mi ha colpito la particolare sintonia che si veniva a creare fra le immagini – corpi nudi femminili – e la capacità del bianco e nero di graduarsi fino a creare un equilibrio particolarmente intenso fra figura e spazio. Nella sistematica invadenza cromatica che ha oggi insinuato dappertutto il digitale, in un’abitudine percettiva che crea una quasi continua iperrealtà, l’intimità del bianco e nero, delle sue relazioni interne, non poteva che fare porre l’attenzione sulla sua profonda capacità di restituire un equilibrio di forma del tutto autonomo, in cui le regole erano costituite dal continuo rapportarsi fra luci ed ombre, fra luminosità narrative e silenzi chiaroscurali, inquietantemente dosati dall’occhio e dalla sensibilità di Martina, al di là della spettacolarità naturalistica che ci offre spesso il colore attraverso l’immagine digitale. E’ pur vero che la stessa Martina usa il digitale, ma ha saputo ricorrere ad una coscienza del mezzo in parte perduta, che si richiama ai grandi maestri della pur tuttavia recente epoca del predigitale: bisognerà pur ben ricordare che la grande rivoluzione tecnologica di cui il digitale partecipa, che ha attenuato la profondità espressiva dell’analogico e della sua capacità di formulare segni profondi attraverso la fisicità materica dei suoi componenti, è cosa di ben poco tempo fa: tanto che le generazioni più giovani quasi non ne colgono la specificità espressiva, affascinati dall’indubbia enorme capacità di manipolare e trasformare l’immagine che il digitale ha offerto: senza ricordare peraltro che gran parte della storia della fotografia del Novecento e dei suoi così incisivi linguaggi si è proprio costruita quasi nella sua interezza sull’analogico e nelle estreme possibilità di variazione del bianco e nero e le sue capacità di trasmettere la tensione psicologica fra figura e spazio (si pensi fra tutti a Walker Evans). Martina Massarente ha saputo peraltro recuperare la profondità dei neri e la loro plasmabilità sotto l’azione della luce, combinando l’integrazione fra spazio e figura, allo stesso tempo prestando un’antica attenzione alla qualità espressiva delle luci e delle ombre nella sapienza della scelta della stampa: in ciò non poteva che rafforzarsi il racconto, ponendo al centro la sensibilità e, talvolta, la misteriosa quanto intima forza evocativa dei personaggi. Magia di un racconto che nasce dalla profonda attenzione con cui si esprime, senza retorica e senza l’effetto pittoresco del colore, nell’intimità drammatica ma non teatrale della narrazione. Come la stessa Martina sottolinea, le vicende dei personaggi che animano il racconto di Sussurri si muovono in un delicato contrappunto di vite interiori che si confronta con la sommessa identità dei personaggi ibseniani, protagonisti di una solitudine femminile, che, per sua profondità, diventa in qualche misura emblematica di una condizione esistenziale generale, al di là del genere stesso. Ma se il contrappunto letterario è cercato e sottolineato, quasi una narrazione dentro la narrazione delle immagini, è proprio da queste ultime che emerge la freschezza e, al contempo, l’inquieto mistero che costituisce il vero racconto, che dal collocarsi dei corpi in uno spazio solo apparentemente quotidiano trae tutta la valenza narrativa, lasciando aperta ogni possibile storia. E’ quell’intensità narrativa che viene dall’evidenza delle immagini che, proprio dall’essenzialità del bianco e nero si traduce in atmosfera, rifiutando il naturalismo del colore, fin troppo spesso portatore di una realtà gridata, proponendosi per contro nella sua malinconica e carnale intimità. Delle tracce di questo racconto lascio al testo di Martina il narrarne il divenire ben più profondamente, nella sua continuità; o al bel saggio di Alessandra Piatti farne emergere la sequenza e, allo stesso tempo, la familiarità con altre esperienze della fotografia contemporanea. A me preme qui sottolineare come questi racconti, nel loro sobrio bianco e nero, facciano parte pienamente e a buon diritto di una lunga tradizione di immagini in cui il corpo si pone in un’intima relazione con lo spazio, quasi ad esprimere, attraverso questo quotidiano confronto, senza retorica, una sommessa quanto intensa condizione di esistenza, di cui esso diventa una sorta di sottile e inquieto sensore. In una storia fotografica che dai nudi quasi astratti di Weston giunge fino alla tragica inquietudine di Francesca Woodman, che propone il confronto con la povertà decadente dei luoghi – talvolta aggressivi nel loro squallore – e la freschezza dei corpi che all’interno di essi dichiarano il loro carattere temporalmente effimero; o le altrettanto effimere presenze, nonostante le solo apparenti messe in posa, dei personaggi di Mapplethorpe o di Irina Ionesco; o, ancora, lo straniato barocchismo delle immagini di Sarah Moon: in una malinconia del quotidiano, pur accentuata talvolta dalla drammaticità dei contrasti degli oggetti e dalla non negata sensualità dei corpi che dichiarano, come le fragili modelle di Martina, la transitorietà del tempo e la solitudine di tutti.