Titolo: Chiara Ferragni. Filosofia di una influencer
Autore: Lucrezia Ercoli
Casa Editrice: Il Melangolo
Anno: 2020
Una storia che conforta, che da a tutti la speranza di indossare un bel capo, farsi una foto ed essere subito una star. Non c’è nulla di nuovo, se pensiamo che Andy Warhol ha parlato dei 15 minuti di notorietà ben prima dell’arrivo degli Influencer digitali. Tuttavia è questo ciò a cui la società italiana aspira: scoprire il talento di ognuno, diventare un eccellenza e avere grande successo. Tutto ciò è alla base del necessario riconoscimento della propria esistenza, del proprio ruolo nel mondo, della propria autostima.
Tuttavia, per quanto questa fiaba sia meravigliosa, non funziona così. Almeno non per tutti.
Il libro nasce dalla consapevolezza che filosofia, arte e spettacolo possano coesistere e che esse debbano costantemente confrontarsi con i fenomeni della contemporaneità, siano essi più o meno discutibili.
Perché quindi un libro su Chiara Ferragni?
A un primo sguardo potrebbe sembrare qualcosa di banale o di poco rilevante, l’ennesima pubblicazione su qualcuno che non ha certo necessità di far parlare di sé perché lo fa già molto bene da sola, al contrario, però, l’autrice, la giovanissima Lucrezia Ercoli, classe 1988, già direttrice del Festival Popsophia spiga che il libro nasce dalla necessità di affrontare un fenomeno, quello appunto di Chiara Ferragni, ben più complesso rispetto alla mera azione di marketing, alla quale spesso le critiche più efferate si limitano.
Il libro è tuttavia ben lontano dall’essere una biografia o meglio, per usare le parole dell’autrice, una “agiografia elogiativa” di Chiara Ferragni perché l’intento è quello di provare ad analizzare, attraverso gli strumenti e i metodi del pensiero filosofico, il legame che la giovane imprenditrice digitale ha saputo costruire con i propri follower.
A sostegno del percorso critico del volume, Ercoli ha preso a prestito il pensiero di eminenti filosofi del passato proiettandoli nel mondo contemporaneo; a tal proposito cita Aristotele e il concetto di “imitazione”, un meccanismo che unisce tutti noi esseri umani, così come un altro concetto di fondamentale importanza: la narrazione.
Chiara Ferragni rappresenterebbe dunque un momento di connessione tra questi fondamentali aspetti: il lavoro nel mondo del marketing,infatti, è in costante trasformazione; il brand per sopravvivere deve ora inserirsi in una strada che porta oltre il prodotto arricchendosi di sentimenti e di emozioni, ancora meglio se la vita emozionante è quella di una testimonial che dice qualcosa in più sul prodotto facendone uno stile di vita.
La Ferragni ha infatti avuto la capacità di comprendere, prima e meglio di altri, che Instagram sarebbe stato il canale perfetto per avviare il suo “romanzo di formazione” per le nuove generazioni, costruendo un mondo nel quale non vi è spazio per la caducità o per la negatività, nel quale tutto è bello, felice e “autentico”.
Ma analizziamo meglio insieme i contenuti dando qualche informazione in più sull’autrice.
Lucrezia Ercoli è una giovane filosofa di Macerata, classe 1988, ha studiato Filosofia presso le Università di Padova e Roma e ha in seguito conseguito un dottorato di ricerca in “Filosofia e Teoria delle Scienze Umane” sempre presso l’Università Roma Tre. Dal 2009 è ideatrice e direttrice artistica del Festival culture nazionali itineranti “Popsophia, filosofia del contemporaneo” ed è stata docente presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata e Reggio Calabria.
Un curriculum di tutto rispetto per Lucrezia Ercoli che è anche autrice di altre interessanti pubblicazioni tra le quali si citano: “Che la forza sia con te! Esercizi di Popsophia” edito per il Melangolo nel 2017 e Filosofia della crudeltà. Etica ed estetica di un enigma, edito da Mimesis nel 2014.
Nel 2020 durante il lockdown, a seguito dell’emergenza sanitaria COVID-19 scrive Chiara Ferragni. Filosofia di una influencer; l’idea nasce da una considerazione riguardo il ruolo giocato dagli influencer durante questo momento di particolare difficoltà; Chiara Ferragni si distingue per il suo comportamento, trovata di marketing o no, ha saputo, anche in questa occasione, distinguersi dalla massa dei suoi colleghi con un gesto davvero sorprendente, donando una ingente somma di denaro per la realizzazione di una terapia intensiva di emergenza a Milano.
Il libro di Ercoli si articola in 13 brevi capitoli che sintetizzano i punti salienti dello “stile Ferragni”, della sua vita e della sua attività. Emblematica, a mio parere, è stata anche la scelta dell’immagine di copertina (alla quale faccio sempre molto caso quando acquisto un libro): lo splendido volto della Venere di Botticelli (particolare dell’opera La nascita di Venere di Sandro Botticelli conservata presso il Museo degli Uffizi a Firenze) rimanderebbe emblematicamente, con la sua splendida chioma bionda, al volto della Ferragni; ma al contempo, questa immagine è stata scelta perché porta alla memoria una delle ultime significative polemiche sul suo conto: la visita al Museo degli Uffizi in occasione dello shooting per “Vogue Hong Kong” realizzato interamente presso le sale del museo.
Bellissima e intelligente quindi l’idea editoriale di porre a confronto il titolo e un’immagine provocatoria che incuriosisce il lettore non tanto per il fatto che il libro parli di Chiara Ferragni, ma perché emerge a chiare lettere il taglio dato dall’autrice, che nemmeno troppo sottilmente si appresta a sfoderare le armi del pensiero filosofico per discutere un fenomeno della contemporaneità che non smette di far parlare (bene o male, purché se ne parli!).
Questa può forse essere considerata una copertina “interattiva” perché ci permette di entrare nel libro ancora prima di leggerlo, ci proietta fin da subito in un universo fatto di commenti, critiche e difese, in un mix di cultura alta e bassa immergendosi appieno nella cultura della “convergenza” (H. Jenkins, 2006) un vero e proprio clima di rivoluzione per il marketing, che ci piaccia o no.
Ho acquistato questo libro presso la libreria “L’amico ritrovato” di Genova, dove di solito acquisto proprio i libri del Melangolo che sono ordinatamente riposti tutti nello stesso posto; la libreria è un posto piccolo e intimo (ma sempre pieno di gente!) che mi fa stare bene e soprattutto, cosa non trascurabile, è gestita in un modo grazie al quale trovo sempre tutto!
Il libro si apre con il primo capitolo: “CONTAGIO” una parola, anche in questo caso, significativa perché contestualizza immediatamente la produzione del testo: siamo in lockdown quando Ercoli avvia la sua riflessione che inizia con una domanda: “Ora mi credete quando parlo del potere della condivisione?”. Questa frase fa riferimento al comportamento tenuto dagli influencer in periodo di pandemia e nello specifico, prende in analisi quanto fatto dai Ferragnez che, in fin dei conti, con la loro campagna di raccolta fondi e la loro personale donazione hanno ottenuto il denaro necessario per la realizzazione di un nuovo reparto di terapia intensiva costruito a Milano in soli 10 giorni.
Viviamo ormai in una società che si regola sulle analisi dei dati; per ogni contesto e ogni situazione esiste infatti un sistema di analisi che stabilisce quanto siamo cool, quanto siamo “so excited”, quanto siamo “so cute”, quanto siamo “so beautiful” e tanti altri “SO” che caratterizzano le nostre identità.
Siamo fighi se parliamo inglese e diciamo “TOUST” anziché “TOST” e se utilizziamo il vocabolario adatto con i vari “scope of work”, i vari “topic”, i vari trend, l’aumento dell’engagement ecc … e quindi abbiamo anche la “Sentiment Analysis” che analizza, appunto, opinioni ed emozioni espresse online dagli utenti permettendo ai brand di sintonizzarsi con “il sentire comune”.
Tutti ci provano, ma non tutti ce la fanno e infatti, come sostiene l’autrice, certe azioni andrebbero valutate dalle conseguenze e non solo dalle intenzioni; dunque, quali sarebbero le conseguenze del gesto di Chiara?
Un reparto nuovo e la nascita di altre campagne di raccolta fondi, perché a quel punto nessuno avrebbe potuto restare al di fuori della situazione e il discorso sul contagio assume quindi, in questa parentesi iniziale, un aspetto ancora più interessante del quale forse tutti ci siamo resi conto in rete: il contagio emotivo che con il lockdown si è acuito rendendo tutti molto vicini gli uni agli altri fa comprendere come il digitale sia stato il nostro unico strumento di vicinanza.
Qui ne emerge anche un ritratto inconsueto della Ferragni che si presenta in una veste diversa dal solito e il suo raggio d’azione si è diffuso in tutto il mondo.
Ma come?
Ercoli ripercorre quindi rapidamente gli esordi di Chiara Ferragni, quando nel 2009, insieme all’allora compagno Riccardo Pozzoli, fonda The Blond Salad. Pozzoli studente come Chiara alla Bocconi di Milano si trova in quel periodo in America per uno stage quando acquista il dominio per il sito nel quale, almeno inizialmente, si occupano di diverse cose: dal fashion, al lifestyle, ai viaggi.
L’idea centrale è comunque la condivisione del quotidiano e Chiara sa già che vuole diventare qualcuno: “ogni giorno alle 9:00 il blog diventa un appuntamento della routine” e in breve tempo Chiara diventa ricercatissima da importanti brand di moda.
Nel 2011 nasce la società di Chiara e Riccardo, la TBS CREW SRL dove la gestione non è più casalinga ma viene affidata a professionisti con tutta una nuova fashion equipe compreso il fotografo che sostituisce Pozzoli nella realizzazione di immagini dal taglio decisamente più professionale.
Tutto il lavoro di Chiara era inizialmente svolto in modo casalingo, partendo dal ben fornito armadio di casa Ferragni … tuttavia, è bastato questo a farla diventare presidente e amministratore delegato di una società che da lavoro a circa 80 persone?
No di certo, infatti l’autrice si spinge a indagare il metodo di lavoro di Chiara individuando nel Digital Storytelling un certosino lavoro di costruzione della sua immagine e del suo essere e a tal proposito afferma: “Chiara in ogni post raccontava una storia”, costruendo un nuovo tipo di pubblicità che passa per le stories prima che per il prodotto.
Con l’arrivo delle stories cambia dunque non solo il modo di vendere, ma anche di acquistare; comprare significa ora condividere una storia e vivere, con gli occhi di Chiara, un’esperienza (questo concetto fa riferimento al “Narrative turn” teorizzato da Christian Solomon) ed è infatti vero che questo aspetto ci porta a riconsiderare la narrazione, qualcosa che torna in auge con le tecnologie e il cui fenomeno viene conosciuto come Storytelling Revival o epoca narrativa.
Tale recupero è avvenuto anche a livello accademico attraverso la proliferazione di studi e pubblicazioni in materia (più o meno validi) perché sono proprio le storie ad attivare quelle emozioni che permettono al marketing di evolvere ridisegnando quei comportamenti che la Ferragni sfrutta sapientemente, quello che Andrè Gunthert, insomma, definisce “la collettivizzazione dei contenuti”.
Non viene infatti solo condivisa la “figura” di Chiara, ma anche le sue immagini, quelle che produce con sé stessa protagonista nel suo contesto, creato per essere condiviso. La sua vita viene dunque resa immagine accessibile e condivisibile dagli utenti perché il valore dell’immagine, oggi, risiede nella sua “condivisibilità” e nelle possibilità da essa offerte di “conversazione”.
La vita-lavoro di Chiara diventa un gioco di conversazioni e al contempo modello di produzione culturale ridefinendo l’idea di “spazio comune” con una portata senza precedenti. Tutto quello che Chiara fa viene messo in scena per le stories, come scrive l’autrice: “in un preciso universo narrativo che non abbraccia soltanto la moda, ma l’intera vita quotidiana”.
Il blog di Chiara se visto in questa prospettiva non è quindi solo un luogo nel quale diavoletta87 (il nickname utilizzato agli inizi della carriera) poteva condividere i suoi outfit, ma diventa una vera e propria Inspirational platform, una piattaforma di ispirazione per tutte le situazioni, tuttavia Chiara ha avuto anche il merito di comprendere che sarebbe stato Instagram il luogo più adatto a dare voce alle sue storie quotidiane, che “documentano la vita” della giovane fashion blogger prendendo parte “al gioco dell’autorappresentazione” e che come tale “è costantemente valutabile”: è l’abito a far esistere il corpo nella società on e off line presentandolo agli altri, esattamente come scrive Gunthert in riferimento al proliferare dei selfie.
Il volume di Ercoli prosegue con la caption del momento “Look of the day” con cui Ferragni presenta i suoi outfit e lo fa con una banalità sconcertante che si allontana dal linguaggio ricercato delle riviste di moda; qui si innesta un’ulteriore considerazione che vale la pena analizzare : “tutti vogliono questa vita. Tutti vogliono essere noi”, è innegabile, a tutti piacerebbe accedere al successo e alla pubblicità, come scrive John Berger nel suo volume “Sul guardare”, : “la pubblicità è efficace perché si nutre di irrealtà”; desacralizzare quindi il mondo aulico della moda portandolo tra la gente, rende tutto, benché solo in apparenza, accessibile.
Tale accessibilità è data da uno studio accurato dell’estetica del quotidiano che è divenuta un vero e proprio ramo della ricerca filosofica. Tutto ciò che presenta Chiara con le sue stories e con le sue immagini Instagram fa parte della sua vita e piace perché non mette in difficoltà nessuno, anzi, questa ordinarietà, sapientemente costruita, la fa apparire come una “comune mortale” che “entra a corte e conquista il trono”; è qui che l’autrice introduce il concetto della “retorica dell’autenticità”; ci vuole molta capacità tecnica per fare qualcosa di estremamente naturale, questo è testimoniato dalla grande quantità di comunicazioni visive che ironicamente girano su internet recitando più o meno : “lei sveglia alle 6:00 del mattino; io …” questo fa comprendere come ciò che appare non sia qualcosa di facilmente riproducibile se non con un’attenta preparazione.
Siamo in una società nella quale non può esserci cedimento, dove il corpo deve essere perfetto e pronto per le fotografie in ogni momento eliminando il negativo per costruire un’immagine “spendibile” e aumentare l’autostima che Chiara “vende” con il suo modo di fare condiviso e apparentemente alla portata di tutti.
Scatta così un meccanismo vecchio almeno quanto la pubblicità e ben descritto nuovamente da Berger: “la pubblicità parla sempre del compratore a venire” infatti Ferragni afferma: “mi ispiro alla Chiara che vorrei”; l’immagine renderebbe quindi chi osserva invidioso “del se stesso che potrebbe essere” e promettendogli la felicità agognata e misurata sulla base del giudizio degli altri, perché “la felicità di essere invidiati è glamour!”.
Tipico della scena odierna è quindi l’insegnamento di un’ideale di crescita personale che per Chiara va di pari passo con la crescita del suo fatturato, un ideale che richiede alle persone di non essere mai sufficientemente soddisfatte di sé e di avere quindi sempre qualcosa da migliorare se non da cambiare; tale insoddisfazione intesa come “sua personale di vita all’interno della società” prevede così che, se acquisterai o condividerai qualcosa che ha acquistato o vissuto Chiara, allora anche la tua vita sarà certamente migliore.
L’autrice infatti scrive che la vita-lavoro di Chiara è costruita sulla base della sua instagrammabilità, ossia in luoghi e secondo uno stile perfetto per essere condiviso socialmente; le life – story sono i luoghi nei quali ci rifugiamo per essere visti, commentati, citati e condivisi all’interno del gioco dell’autorappresentazione e in ciò che Erving Goffman definisce come “messa in scena della vita quotidiana”; è infatti la cultura del selfie e la sua costruzione collettiva ad aver messo in relazione l’élite con il grande pubblico ed è quindi l’utente a scrivere tale rapporto in un’opera aperta fatta di tanti frammenti come le stories.
Gli utenti che costruiscono questo rapporto di fiducia con la loro fashion blogger del cuore vengono coinvolti e gratificati aumentando quello che l’autrice definisce “desiderio mimetico” teorizzato da Aristotele e ripreso in tempi più recenti da René Giraud che interpreta il desiderio mimetico non tanto come il “desiderio di qualcosa”, bensì come “il desiderio di essere qualcuno”: desidero il desiderio di un altro e lo faccio mio.
L’idea è condivisa: emergere dalla massa con la propria identità; questa idea di libertà è nuovamente costruita dai fashion influencer che per mostrare al proprio pubblico di avere stile, mixano (in modi anche improbabili e dal gusto assai discutibile) abiti di bassa qualità con accessori di grandi firme trasformando quegli stessi accessori, quegli stessi abiti in qualcosa di desiderabile e quindi in grado, attraverso il loro acquisto, di garantire il raggiungimento della felicità (le cose diventano, come scrive l’autrice, oggetti sentimentali capaci di coinvolgere profondamente l’utente).
Questi sono certamente gli aspetti più interessanti della Ferragni story, la parte centrale del libro tratta della popolarità delle vicende familiari con il ruolo giocato anche dal marito Fedez approfondendo le modalità di utilizzo dello storytelling anche nel racconto del loro matrimonio, nella scelta della location siciliana di Noto per la sua instagrammabilità dove costruiscono “un mix di Arcadia e Postmoderno”.
Sempre parte della loro instancabile narrazione è stata anche la nascita del figlio Leone che apre una riflessione ulteriore sulla donna, madre e lavoratrice in carriera, una donna che con il suo lavoro può permettersi di gestire il tempo nel migliore dei modi alternando famiglia e lavoro; è vero che al giorno d’oggi permettersi un figlio, volendogli offrire una chance nella vita, è un vero e proprio lusso, ma il modello che Chiara propone è quello di una madre che non deve sentirsi sconsiderata se lascia il figlio al marito per viaggiare per il suo lavoro e che non deve essere giudicata nemmeno se lo lascia per andare a prendere un aperitivo con le amiche e finire per questo nel mirino degli haters.
Caso però più interessante che l’autrice affronta nel libro è ciò che ha ruotato intorno all’uscita di “Chiara Ferragni Unposted” che tradisce in parte le aspettative del pubblico non mettendo in scena qualcosa di davvero personale per limitarsi ad amplificare ciò che accade nello storytelling quotidiano. Ercoli fornisce una chiave di lettura estremamente interessante perché vede in questo prodotto una vera e propria agiografia, una “leggenda luminosa” nella quale tutto è perfetto e “so excited”.
La vita narrata dalla madre nel film fa apparire Chiara come una predestinata al successo e ciò non è casuale: “la moda è un tempio sicuro” scrive Lucrezia Ercoli e il linguaggio con il quale ci riferiamo ad essa è quello della religione e delle icone sacre; così come Chiara, predestinata a dare vita a cose grandiose è una donna che vive e che “sente”, ma come una santa con un destino di Gloria. La storia ha quindi come trama la predestinazione di Chiara Ferragni a diventare una fonte di ispirazione vivente che ripete le solite frasi motivazionali, quel “do it yourself” che tanto piace a tutti e che combinato al sapiente uso dei media ha avviato la sua inarrestabile carriera. Nonostante questo, tutto è costruito come in una favola in cui l’eroina viene esaltata dai collaboratori anche quando vive momenti emotivamente fragili … e poi il matrimonio …. E vissero tutti felici e contenti!
Il libro inizia ad avviarsi quindi alla conclusione con la trattazione dell’ultimo fatto che ha suscitato grande scalpore: la visita agli Uffizi in occasione dello shooting per “Vogue Hong Kong” connesso ad un evento di beneficenza e nella quale è stata accompagnata dal direttore del museo.
Sembra incredibile, ma con il “suo solito stile laconico ed entusiasta” come lo definisce l’autrice, le è bastato un cuoricino e una breve caption per portare 550 mila apprezzamenti al museo.
Qui l’intervento di Schmidt è stato davvero apprezzabile poiché ha sostenuto che il museo e le collezioni non appartengono esclusivamente ad una certa élite, bensì a tutti.
Infin dei conti è anche vero che la visita della Ferragni non aveva lo scopo di fare il Piero Angela della situazione, né di fare un’analisi critica delle opere alla Sciolla ed è bastata la sua sola presenza nei “luoghi sacri dell’arte” per far scatenare la polemica … francamente se questo serve per far conoscere alle generazioni più giovani l’arte, BEN VENGA!
Questa è una questione importante, che va considerata: ognuno deve fare il proprio mestiere, certo, sarebbe meglio che le persone conoscessero il museo per via di una cultura scolastica accettabile, magari svolta in modo accattivante, piuttosto che conoscere tali realtà a seguito del profilo Instagram della Ferragni. Tuttavia, questo fa parte del nostro tempo, la “convergenza” e il digitale ci portano anche a vivere queste situazioni, a dover fare i conti con i nuovi potenziali creativi sfruttabili per fare cultura divulgativa.
A mio avviso, riflettendo sulle pagine di Lucrezia Ercoli, si è quindi perso il focus della questione, ossia: la visita agli Uffizi della nota Influencer non aveva lo scopo di fare della Ferragni una storica dell’arte; la sua azione non era diretta a nobilitare qualcosa che, già di per sé, non ha alcuna necessità di essere nobilitata, cioè il museo e le sue opere, perché se al posto degli Uffizi ci fosse stato il Louvre sarebbe accaduta la stessa cosa.
La Ferragni è andata agli Uffizi perché era un posto da visitare, un luogo SO BEAUTIFUL esattamente come altri posti che ha visitato e a chi la segue piace che lei sia stata in quel luogo, esattamente come al pubblico del follower piacciono tutti i luoghi nei quali si reca, perché è di fatto la sua vita, anzitutto, a piacere alle persone perchè è un modello al quale aspirare.
Non sentiamoci quindi punti sul vivo o offesi di questa visita, oppure, ancor peggio, denigrati nella nostra professione di lucidi, impavidi e brillanti accademici, perché non è da questo punto vista che va considerata la questione. E posso immaginare che a Chiara Ferragni non interessi affatto diventare un’esperta di Botticelli, tuttavia può interessarle perché è pur sempre consapevole di non essere una totale ignorante ed è bene, considerata anche l’influenza che ha sul pubblico, avere idea di che cosa sia, in concreto, la cultura di questo paese.
E Chiara è una donna imprenditrice libera, che può liberamente godere del suo corpo imperfetto (perché lo è e se ne fa un vanto) si gode i suoi soldi e le sue cose, perché se li è guadagnati con la visibilità che, proprio voi, cari lettori, le avete dato. E quindi ne fa buon uso, in modo totalmente legittimo. Questo apre quindi la discussione su quanto effettivamente le donne abbiano timore a lanciarsi in progetti imprenditoriali solo con le loro forze perché spesso sono esse stesse, tra di loro, a farsi male reciprocamente: per invidia. Molto peggio di ciò che combinano gli uomini, che sul lavoro hanno un senso di “collaborazione” molto diverso. Spiace dirlo, ma è cosi. Quindi perché non pensare che questi personaggi, che questi profili e questi nuovi mestieri possano essere un altro veicolo per informare, per passare dei messaggi, per fare bene il proprio mestiere collaborando con esperti dei diversi settori?
La stessa Ferragni non fa tutto da sola quando deve predisporre contenuti per grossi marchi, ma collaborerà con gli esperti del brand. E se questo funzionasse anche per la cultura?
A me, personalmente, parlare d’arte “facendo l’occhiolino” non farebbe proprio schifo.
Che cosa ne pensate?